Il Pardo
è asiatico
CRISTINA PICCINO -
LOCARNO
Vince la Cina e il direttore Marco Muller si dimette.
Bizzarra coincidenza nel finale di festival che chiude un
cerchio, con il Pardo d'oro a Papà, nell'ultima edizione
diretta da quello che è tra gli esploratori più spericolati del
pianeta cinematografico cinese. Diretto da Wang Shuo, scrittore
amato dai cineasti più giovani che hanno spesso riadattato le sue
opere, centrate su rapporti di ribellione, per il grande schermo,
Papà è arrivato a Locarno, in concorso, con quello che
ormai è quasi un copione per il cinema cinese delle ultime
generazioni, ovvero clandestino e col titolo camuffato di "film a
sorpresa". Il che fa sì che il Pardo d'oro fosse un po' nell'aria
- tra i giurati c'era pure Zhang Yuan, che della ribellione ha
fatto il cuore del suo immaginario - proprio come le dimissioni
di Marco Muller, annunciate prima ancora che il festival
iniziasse su tutti i giornali ticinesi, e nei buzz di chiacchiere
serali della famiglia festivaliera internazionale. Nessuna
polemica, un saluto applauditissimo e commosso, Muller si dedica
da oggi in poi - sta partendo per il set di Non Man's
Land, film di un regista bosniaco, Danis Tanovic -
all'attività di produttore, iniziata qualche anno fa nella
Fabrica di Toscani e Benetton, dove ora dopo la rottura tra i due
(e le dimissioni di Toscani) probabilmente potrà avere maggiore
possibilità di movimento. Per lui è una scelta di continuità,
c'era già il lavoro con la Fondazione Monte Verità che punta
soprattutto sul cinema del "sud del mondo", e Fabrica continua
questa politica - per esempio una delle ultime produzioni è stato
Lavagne di Samira Makhmalbaf, premio della Giuria a
Cannes - che guarda al cinema nuovo, anche se nell'edizione 2000
mancava completamente l'Africa, proprio come nel cartellone
veneziano. Così mentre Muller si augura di tornare magari in
piazza Grande con un suo film, si è aperto il totofestival,
direttore e presidente, vista la scomparsa di Buffi, e il
consiglio d'amministrazione ha fatto sapere che ha già pronto il
profilo del secondo mentre per il primo c'è bisogno di tempo
(decisione ufficiale a settembre) ma la scelta sarà di continuità
con la politica attivata in questi otto anni da Muller.
Se quest'anno il festival ha proposto un concorso piuttosto
compatto per qualità di scelte, e nell'insieme, un corpo-cinema
irrequieto, attento a quanto si muove nella teoria e nella
pratica soprattutto in rapporto alle riflessioni sulle nuove
tecnologie - a cominciare dalle mille potenzialità del digitale -
la giuria (gli altri erano Hélène Angel, Shinji Aoyama,
Alessandro D'Alatri, Naum Klejman, Clemens Klopfenstein, Todd
McCarthy, Paz Alicia Garciadego, Shirin Neshat) ha dimostrato un
orientamento piuttosto convenzionale. Ignorati capolavori come
No quarto da Vanda di Pedro Costa o A raiz do
coraçao di Paulo Rocha, premiato però infine un film
italiano, Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti con il
premio della giuria, ex-aequo per il pardo d'argento Little
Cheung di Fruit Chan (ancora il continente asiatico) e
Manila di Romuald Karmaker, film di viaggio con "falso
movimento" (siamo nella sala d'attesa di un aeroporto) in cui si
mostrano tutti i i limiti della produzione tedesca in questi
ultimi anni. Che pure a Locarno ha avuto il premio per la
migliore attrice, Simone Timoteo (una Bjork giovane),
protagonista di L'amour l'argent, l'amour firmato da
Philippe Groning, fisicità bruciante nelle prime dieci sequenze,
poi schiacciata da un road-movie in cui aleggiano i fantasmi
wendersiani (come in Manila) e la brutalità alla
Rosetta. Un bel segnale è invece il premio a Pedro Costa
della giuria dei giovani, il che smentisce chi dice che i giovani
sono omogenizzati da eccessi di tv, e che anzi le generazioni
cresciute a videoclip e Mtv hanno occhi, cuore e cervello ben
svegli.
Papà ci mostra il conflitto tra un padre vedovo, brutale
e un poco alcolista e il figlio che non ne accetta più
l'autorità. Dietro una rivolta "intima", familiare che appartiene
alla storia del mondo, il regista lascia intuire le fratture
generazionali della Cina anni 90, la distanza tra le istituzioni
- famiglia, scuola, fabbrica, partito - e giovani che possono
essere i fratelli minori dei ragazzi di Tien An Men, alla ricerca
di una propria dimensione, necessariamente non più utopica, fuori
dal rispetto per un sistema imposto e non scelto. C'è insomma la
tradizione del romanzo di formazione adolescenziale intrecciata
al presente del paese in cui vive e lavora, e il bisogno di
Realtà è forse il limite maggiore del film (quanto era diversa
l'angoscia e la violenza nella battaglia per il diritto a
esistere che si viveva, ad esempio in Mama di Zhang
Yuan). Perché poi lo scontro segue regole ben precise e
riconoscibili, scivolando in quella "logica da festival
occidentali" che Wang Shuo critica nell'opera (con poca eleganza,
va detto) di Zhang Yimou. Radicale esempio di un cinema
esplosivo, pura sovversione di linguaggio è invece
Cronicamente Inviavel (ignorato dai giurati) di Sergio
Bianchi, brasiliano che alle spalle ha un lungo percorso di
cinema visceralmente politico. Così è anche questo suo ultimo
film, gusto acre di humor e analisi lucida del paese esplorato
nelle sue diverse regioni. Violenza, miseria, prevaricazione,
razzismo, frattura mai superata tra nord e sud, brutalità
dell'istituzione (polizia in testa), Bianchi non cela nessun
elemento di un quotidiano contradditorio e pesante che certo non
basta la retorica delle celebrazioni (qui polverizzata) per i
Cinquecento anni a sopire. La "guida" tra i contrasti è Alfredo,
scrittore cinquantenne che ci porta a diversi incontri con
personaggi emblematici: Luis, proprietario di un ristorante a San
Paulo, Adam, giovane irrequieto di origine polacca che fa il
cameriere, una coppia di clienti borghesi, Maria Alice e il
marito Carlos, Amanda, che gestise uno "strano" locale di
lusso... Tempo e spazio frantumati, Bianchi non concede nulla,
implacabile osservatore che insieme ai luoghi comuni del mondo
disgrega quelli del cinema, riscritto, riformulato, rivisto nelle
sue possibili deviazioni rispetto alla censura anche mentale del
conosciuto. Il regista dice che non voleva fare un film
"colonizzato" costruito cioè su modelli euro-americani per
conquistare il mercato (velata critica a Walter Salles jr?.) e al
contrario nelle sue immagini di ass
oluta contemporaneità ritroviamo quel gusto spiazzante e folle
che era del cinema novo udigrudi, nervi scoperti ed eccesso di
meraviglia, il conflitto che arriva bucando la superficie
patinata scopre la materia della seduzione.
Politico nei linguaggi e nel confronto aperto con le potenzialità
dei nuovi mezzi è anche il cinema premiato nella sezione dei
"Cinéastes du présent" (giurati Edo Bettolio, Fréderic Bonnaud,
Carlos Reichenbach) dove per consuetudine più che altrove prende
vita l'anima potenziale del cinema. Les yeux fermés di
Olivier Py, Un poeta di Garin Nugroho e Seule avec la
guerre di Danielle Arbid sono tre esempi molto diversi di
come confrontarsi partendo dalla prima persona con l'universo del
vissuto, con la memoria e con il presente, con quello "stato
delle cose" che non può essere vivisezionato.
La vicenda privata e l'arte del poeta Ibrahim Khadir permettono
al regista (che ha girato in sette giorni) di aprire uno squarcio
sull'Indonesia oggi, sul presente di violenze e persecuzioni (il
poeta è finito in galera senza processo, testimone pericoloso del
massacro dei comunisti accusati di avere ucciso sette generali).
La sua arte è il didong, forma tradizionale della provincia di
Aceh, a nord di Sumatra, in lotta per l'indipendenza, che qui
diviene teatro per dare voce a fatti nascosti, che si consumano
ogni giorno e però agli occhi del resto del mondo è come se non
accadessero. In digitale ha girato Olivier Py (per la serie
prodotta da Arte "Petites camera"). Les yeux fermés di
cui è anche protagonista, intreccia il privato del personaggio, i
suoi incontri nella notte, l'amore con il misterioso e ineffabile
Vincent e il teatro, dove lavora, la vita collettiva, le
relazioni sempre in bilico nelle nevrosi. Ma non è una storia
d'amore gay quella che racconta Py, piuttosto un percorso
scoperto e sovraesposto, senza però alcun narcisismo nel suo
cuore e nel cuore umano, delicato, sensibile, pieno di coraggio
nell'accettare il rischio della sincerità.
Da sé e dalla propria memoria parte anche Danielle Arbid tornando
nel paese che ha lasciato dieci anni fa, il Libano. "Ciò che mi
fa paura non è il passato ma il presente" dice la ragazza
incontrando i protagonisti della guerra che ha sconvolto il suo
paese e che oggi tutti vogliono cancellare. Agghiacciante la
presunzione del miliziano cristiano, che oggi va al lavoro come
allora gettava obici senza pensare a dove arrivassero, del
musulmano che segue lo stesso percorso, di chi ha combattuto e
non può vivere senza il rumore delle bombe, dei politici che
ricordano l'esercito e non i civili, e infine dicono che l'unica
guerra è quella in Israele. Alla fine di questo viaggio non ci
sono risposte, si aprono soltanto altri dubbi e nel riflesso di
quella rimozione appare il presente di altre guerre,
interminabili perché volutamente senza nessuna prova di
consapevolezza.
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