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13 Agosto 2000
 
 
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Il Pardo è asiatico
CRISTINA PICCINO - LOCARNO

Vince la Cina e il direttore Marco Muller si dimette. Bizzarra coincidenza nel finale di festival che chiude un cerchio, con il Pardo d'oro a Papà, nell'ultima edizione diretta da quello che è tra gli esploratori più spericolati del pianeta cinematografico cinese. Diretto da Wang Shuo, scrittore amato dai cineasti più giovani che hanno spesso riadattato le sue opere, centrate su rapporti di ribellione, per il grande schermo, Papà è arrivato a Locarno, in concorso, con quello che ormai è quasi un copione per il cinema cinese delle ultime generazioni, ovvero clandestino e col titolo camuffato di "film a sorpresa". Il che fa sì che il Pardo d'oro fosse un po' nell'aria - tra i giurati c'era pure Zhang Yuan, che della ribellione ha fatto il cuore del suo immaginario - proprio come le dimissioni di Marco Muller, annunciate prima ancora che il festival iniziasse su tutti i giornali ticinesi, e nei buzz di chiacchiere serali della famiglia festivaliera internazionale. Nessuna polemica, un saluto applauditissimo e commosso, Muller si dedica da oggi in poi - sta partendo per il set di Non Man's Land, film di un regista bosniaco, Danis Tanovic - all'attività di produttore, iniziata qualche anno fa nella Fabrica di Toscani e Benetton, dove ora dopo la rottura tra i due (e le dimissioni di Toscani) probabilmente potrà avere maggiore possibilità di movimento. Per lui è una scelta di continuità, c'era già il lavoro con la Fondazione Monte Verità che punta soprattutto sul cinema del "sud del mondo", e Fabrica continua questa politica - per esempio una delle ultime produzioni è stato Lavagne di Samira Makhmalbaf, premio della Giuria a Cannes - che guarda al cinema nuovo, anche se nell'edizione 2000 mancava completamente l'Africa, proprio come nel cartellone veneziano. Così mentre Muller si augura di tornare magari in piazza Grande con un suo film, si è aperto il totofestival, direttore e presidente, vista la scomparsa di Buffi, e il consiglio d'amministrazione ha fatto sapere che ha già pronto il profilo del secondo mentre per il primo c'è bisogno di tempo (decisione ufficiale a settembre) ma la scelta sarà di continuità con la politica attivata in questi otto anni da Muller.
Se quest'anno il festival ha proposto un concorso piuttosto compatto per qualità di scelte, e nell'insieme, un corpo-cinema irrequieto, attento a quanto si muove nella teoria e nella pratica soprattutto in rapporto alle riflessioni sulle nuove tecnologie - a cominciare dalle mille potenzialità del digitale - la giuria (gli altri erano Hélène Angel, Shinji Aoyama, Alessandro D'Alatri, Naum Klejman, Clemens Klopfenstein, Todd McCarthy, Paz Alicia Garciadego, Shirin Neshat) ha dimostrato un orientamento piuttosto convenzionale. Ignorati capolavori come No quarto da Vanda di Pedro Costa o A raiz do coraçao di Paulo Rocha, premiato però infine un film italiano, Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti con il premio della giuria, ex-aequo per il pardo d'argento Little Cheung di Fruit Chan (ancora il continente asiatico) e Manila di Romuald Karmaker, film di viaggio con "falso movimento" (siamo nella sala d'attesa di un aeroporto) in cui si mostrano tutti i i limiti della produzione tedesca in questi ultimi anni. Che pure a Locarno ha avuto il premio per la migliore attrice, Simone Timoteo (una Bjork giovane), protagonista di L'amour l'argent, l'amour firmato da Philippe Groning, fisicità bruciante nelle prime dieci sequenze, poi schiacciata da un road-movie in cui aleggiano i fantasmi wendersiani (come in Manila) e la brutalità alla Rosetta. Un bel segnale è invece il premio a Pedro Costa della giuria dei giovani, il che smentisce chi dice che i giovani sono omogenizzati da eccessi di tv, e che anzi le generazioni cresciute a videoclip e Mtv hanno occhi, cuore e cervello ben svegli.
Papà ci mostra il conflitto tra un padre vedovo, brutale e un poco alcolista e il figlio che non ne accetta più l'autorità. Dietro una rivolta "intima", familiare che appartiene alla storia del mondo, il regista lascia intuire le fratture generazionali della Cina anni 90, la distanza tra le istituzioni - famiglia, scuola, fabbrica, partito - e giovani che possono essere i fratelli minori dei ragazzi di Tien An Men, alla ricerca di una propria dimensione, necessariamente non più utopica, fuori dal rispetto per un sistema imposto e non scelto. C'è insomma la tradizione del romanzo di formazione adolescenziale intrecciata al presente del paese in cui vive e lavora, e il bisogno di Realtà è forse il limite maggiore del film (quanto era diversa l'angoscia e la violenza nella battaglia per il diritto a esistere che si viveva, ad esempio in Mama di Zhang Yuan). Perché poi lo scontro segue regole ben precise e riconoscibili, scivolando in quella "logica da festival occidentali" che Wang Shuo critica nell'opera (con poca eleganza, va detto) di Zhang Yimou. Radicale esempio di un cinema esplosivo, pura sovversione di linguaggio è invece Cronicamente Inviavel (ignorato dai giurati) di Sergio Bianchi, brasiliano che alle spalle ha un lungo percorso di cinema visceralmente politico. Così è anche questo suo ultimo film, gusto acre di humor e analisi lucida del paese esplorato nelle sue diverse regioni. Violenza, miseria, prevaricazione, razzismo, frattura mai superata tra nord e sud, brutalità dell'istituzione (polizia in testa), Bianchi non cela nessun elemento di un quotidiano contradditorio e pesante che certo non basta la retorica delle celebrazioni (qui polverizzata) per i Cinquecento anni a sopire. La "guida" tra i contrasti è Alfredo, scrittore cinquantenne che ci porta a diversi incontri con personaggi emblematici: Luis, proprietario di un ristorante a San Paulo, Adam, giovane irrequieto di origine polacca che fa il cameriere, una coppia di clienti borghesi, Maria Alice e il marito Carlos, Amanda, che gestise uno "strano" locale di lusso... Tempo e spazio frantumati, Bianchi non concede nulla, implacabile osservatore che insieme ai luoghi comuni del mondo disgrega quelli del cinema, riscritto, riformulato, rivisto nelle sue possibili deviazioni rispetto alla censura anche mentale del conosciuto. Il regista dice che non voleva fare un film "colonizzato" costruito cioè su modelli euro-americani per conquistare il mercato (velata critica a Walter Salles jr?.) e al contrario nelle sue immagini di ass
oluta contemporaneità ritroviamo quel gusto spiazzante e folle che era del cinema novo udigrudi, nervi scoperti ed eccesso di meraviglia, il conflitto che arriva bucando la superficie patinata scopre la materia della seduzione.
Politico nei linguaggi e nel confronto aperto con le potenzialità dei nuovi mezzi è anche il cinema premiato nella sezione dei "Cinéastes du présent" (giurati Edo Bettolio, Fréderic Bonnaud, Carlos Reichenbach) dove per consuetudine più che altrove prende vita l'anima potenziale del cinema. Les yeux fermés di Olivier Py, Un poeta di Garin Nugroho e Seule avec la guerre di Danielle Arbid sono tre esempi molto diversi di come confrontarsi partendo dalla prima persona con l'universo del vissuto, con la memoria e con il presente, con quello "stato delle cose" che non può essere vivisezionato.
La vicenda privata e l'arte del poeta Ibrahim Khadir permettono al regista (che ha girato in sette giorni) di aprire uno squarcio sull'Indonesia oggi, sul presente di violenze e persecuzioni (il poeta è finito in galera senza processo, testimone pericoloso del massacro dei comunisti accusati di avere ucciso sette generali). La sua arte è il didong, forma tradizionale della provincia di Aceh, a nord di Sumatra, in lotta per l'indipendenza, che qui diviene teatro per dare voce a fatti nascosti, che si consumano ogni giorno e però agli occhi del resto del mondo è come se non accadessero. In digitale ha girato Olivier Py (per la serie prodotta da Arte "Petites camera"). Les yeux fermés di cui è anche protagonista, intreccia il privato del personaggio, i suoi incontri nella notte, l'amore con il misterioso e ineffabile Vincent e il teatro, dove lavora, la vita collettiva, le relazioni sempre in bilico nelle nevrosi. Ma non è una storia d'amore gay quella che racconta Py, piuttosto un percorso scoperto e sovraesposto, senza però alcun narcisismo nel suo cuore e nel cuore umano, delicato, sensibile, pieno di coraggio nell'accettare il rischio della sincerità.
Da sé e dalla propria memoria parte anche Danielle Arbid tornando nel paese che ha lasciato dieci anni fa, il Libano. "Ciò che mi fa paura non è il passato ma il presente" dice la ragazza incontrando i protagonisti della guerra che ha sconvolto il suo paese e che oggi tutti vogliono cancellare. Agghiacciante la presunzione del miliziano cristiano, che oggi va al lavoro come allora gettava obici senza pensare a dove arrivassero, del musulmano che segue lo stesso percorso, di chi ha combattuto e non può vivere senza il rumore delle bombe, dei politici che ricordano l'esercito e non i civili, e infine dicono che l'unica guerra è quella in Israele. Alla fine di questo viaggio non ci sono risposte, si aprono soltanto altri dubbi e nel riflesso di quella rimozione appare il presente di altre guerre, interminabili perché volutamente senza nessuna prova di consapevolezza.

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